A Perugia, una delle città in cui la devozione per San Bernardino era più sentita, fu eretto un oratorio a lui intitolato accanto alla Chiesa di S. Francesco al Prato, proprio dove il santo era solito arringare le folle. In questo oratorio, ornato dalla splendida facciata progettata da Agostino di Duccio, doveva trovarsi una nicchia dedicata al santo, dai cui sguanci proverrebbero le otto tavolette in cui sono rappresentati alcuni miracoli da lui compiuti. La ricostruzione dell’aspetto e della decorazione della nicchia, che doveva secondo le fonti ospitare o una statua del santo o concludersi con lo stendardo raffigurante San Bernardino da Siena raccomanda i perugini a Gesù Cristo di Benedetto Bonfigli (anch’esso conservato presso la Galleria Nazionale dell’Umbria), nonché la paternità delle singole tavolette, sono argomenti tuttora dibattuti tra gli studiosi. La sequenza verticale degli episodi è assicurata dal perfetto combaciare delle incorniciature orizzontali e dall’incidenza della luce dipinta, coerente con un’unica fonte luminosa dall’alto e dall’esterno della nicchia. Nel lato sinistro, dal basso verso l’alto, si susseguivano San Bernardino risana da un’ulcera la figlia di Giovannantonio Petrazio da Rieti, datato 1473, San Bernardino restituisce la vista a un cieco, San Bernardino libera un prigioniero e San Bernardino resuscita un uomo morto trovato sotto un albero, cui corrispondevano in posizione speculare San Bernardino guarisce Nicola di Lorenzo da Prato travolto da un toro, San Bernardino resuscita un bambino nato morto, il Risanamento di Giovanni Antonio Tornano e il Miracolo di Giovanni Antonio da Parma ferito da una pala. Conferma tale ricostruzione il motivo sgraffito sull’oro – in parte reintegrato – su un solo lato di ogni tavoletta, lungo lo spessore sinistro delle prime quattro e su quello destro delle altre, così da decorare il bordo esterno della nicchia. Le Storie di san Bernardino furono uno snodo decisivo per la pittura rinascimentale, non solo umbra, e segnarono l’affermazione perentoria di un linguaggio nuovo a Perugia, in cui, grazie al giovane Perugino, gli echi della luminosa pittura di Domenico Veneziano e le influenze, tra il 1465-1468, di Piero della Francesca, si innestarono sulle più moderne geometrie luminose di Verrocchio. L’opera fu realizzata da una compagnia di più maestri, coordinati da un unico regista che predispose le ambientazioni architettoniche in tutte le scene fin nel dettaglio, con il ricorso alle incisioni. Come riconosciuto da Adolfo Venturi (1913), a guidare questa societas fu il giovane Perugino, direttamente responsabile del Risanamento dell’ulcerata e del Miracolo del cieco, due episodi in cui la coerenza tra ideazione ed esecuzione, tra ambientazione e narrazione, è assoluta. La sua militanza verrocchiesca spiega la preponderante cultura fiorentina delle tavolette, sia nelle architetture in cui abbondano i dettagli decorativi, sia nei paesaggi, caratterizzati da un’attenzione descrittiva e atmosferica di ascendenza fiamminga. Le due scene peruginesche erano sormontate dalla Liberazione del prigioniero e dal Miracolo dell’uomo trovato morto sotto un albero, riconosciute al giovane Pintoricchio, sotto la guida del Perugino, da Adolfo Venturi (1913). La partitura schiettamente peruginesca è seguita da Bernardino con una complicità impressionante – come sarà sui palchi della Sistina –, ricalcando fin nel dettaglio soluzioni e motivi già incontrati nel Risanamento dell’ulcerata e nel Miracolo del cieco. Ma la mano del Pintoricchio si rivela nel disegno più minuto che ingracilisce e allunga le silhouettes; la narrazione asciutta ed essenziale di Perugino è come franta dal temperamento irrequieto del giovane Bernardino, che si distingue, anche nel trattamento dei panneggi, per una ritmica più scattante. Più dibattuta è stata la paternità del Miracolo dell’uomo travolto dal toro e del Miracolo del bambino nato morto, di cui Zeri esaltava la qualità «abbagliante», contestandone il riferimento a Bartolomeo Caporali ipotizzato da Venturi e Berenson e proponendo il nome di Pier Matteo d’Amelia. Piuttosto – come ha riconosciuto Laura Teza –la «nitidezza cristallina» messa in luce da Zeri torna nel Trittico della Giustizia, pagato nel 1475-1476 a Bartolomeo Caporali e Sante di Apollonio del Celandro, ma eseguito integralmente dal secondo. Nelle due storie bernardiniane il riconoscimento della mano di Sante non è immediato, perché il maestro si presenta galvanizzato dal confronto con Perugino, che gli fornì spunti e disegni, riutilizzati a molti anni di distanza dallo stesso Vannucci, come il cortile del Miracolo del bambino nato morto replicato in controparte nell’Annunciazione Ranieri (Galleria Nazionale dell’Umbria). Questa esperienza costituì il cuore pulsante del verrocchismo di Sante, attinto tramite Perugino ed esibito programmaticamente nei lavori seguenti, a partire dal Trittico della Giustizia, dove riaffiora il gusto per le superfici smaltate e pe
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Titolo:Tavolette di San Bernardino. Miracolo di San Bernardino