La croce proviene dalla Chiesa di San Francesco al Prato di Perugia, dove era stata collocata nel tramezzo adibito a dividere l’area riservata ai religiosi e quella aperta ai fedeli. Venne commissionata, insieme al dossale opistografo anch’esso conservato in Galleria, dai Frati Minori conventuali dell’Ordine Francescano in occasione del decennale della traslazione dei resti del Beato Egidio, morto nel 1262. In basso, all’estremità del braccio lungo della croce, è infatti indicata la data di esecuzione: MCCLXXII, 1272; e sotto si fa menzione di Papa Gregorio X che era stato incoronato a San Pietro proprio in quell’anno. La datazione è un elemento raro nelle opere del tredicesimo secolo, e altrettanto rara è l’indicazione del pontificato. Ciò può derivare dal favore di cui il neoeletto papa godeva presso gli ambienti francescani e da una probabile visita che Gregorio poté compiere a Perugia, città papale, durante il suo soggiorno nella vicina Orvieto, proprio tra il 1272 e il 1273. La croce entrò a far parte della Civica Pinacoteca Vannucci nel 1863, anno della sua istituzione, e trovò infine definitiva sistemazione all’interno del Palazzo dei Priori nel 1879. Fu Henri Thode nel 1885 il primo a suggerire la dizione di Maestro di San Francesco per questo artista ignoto, lo stesso autore delle mutile Storie di San Francesco affrescate nella navata della Basilica Inferiore di Assisi; da allora la croce non è più andata incontro ad altre attribuzioni. Formatosi nel primissimo cantiere di Assisi, legato in tutte le sue opere al pensiero e all’iconografia francescana, il Maestro di San Francesco realizza nella croce un capolavoro di stampo pienamente duecentesco e incarna la cultura estetica pre-giottesca. L’opera, di impostazione giuntesca e che abbraccia la nuova iconografia del Christus patiens, è caratterizzata da un brillante cromatismo, apprezzabile per esempio nel blu oltremarino della croce e nel fondo che imita il tessuto. Il corpo del Salvatore si piega secondo una curva tanto elegante quando innaturale, secondo un tipico stilema duecentesco. E altrettanto duecentesca è la resa muscolare del corpo tramite una linea decisa che disegna contorni netti. L’artista mostra però anche un sapiente uso del colore per la resa dei corpi e delle superfici, come si può notare dalle luminosità sul busto e sulle gambe, ottenuta con la biacca. In questo modo il corpo di Cristo risulta illuminato da una fonte proveniente da sinistra. La testa, profondamente incassata nelle spalle, è avvolta da una gonfia capigliatura derivata dai crocifissi di Coppo di Marcovaldo, ed è disegnata con morbide e spesse linee. Similmente lo stesso pennello dipinge le palpebre e le pieghe degli occhi, così pure come la barba, con linee poco naturali ma dolcemente espressive. Agli estremi del braccio orizzontale sono raffigurate le consuete figure dei due dolenti, la Vergine e San Giovanni, rappresentati per intero secondo la tradizione umbra; al vertice troviamo invece una Vergine orante affiancata da due angeli e infine un clipeo con il Redentore. Ai piedi del Cristo, conficcati alla croce da due chiodi piuttosto che da uno come avverrà dal Trecento in poi, troviamo la piccola figura di Francesco, genuflesso in dolorosa contemplazione delle ferite divine. Si tratta di una nuova forma di rappresentazione nata in ambiente umbro che si sarebbe presto diffusa negli ambienti francescani di tutta Italia: la nuova attenzione al dramma della morte di Gesù e la vicinanza spirituale tra Cristo e Francesco (concretizzata nel miracolo delle Stigmate) crearono infatti i presupposti per una rinnovata iconografia che mirava a meditare sul mistero cristologico nella sua dimensione più umana e sofferta.